“La figlia femmina di Adamo” di Ilaria Scarpiello. Recensione a cura di V. Biondillo
C’è una città, con i suoi autobus, le strade su cui passano gli autobus, le persone che prendono gli autobus, le vecchiette che importunano la persone che prendono gli autobus, i negozi, i commessi dei negozi, e tutte quelle cose grazie a cui, ancor prima che l’autrice ce lo dica, riconosciamo la nostra città, la Roma in cui viviamo. Ed è proprio nella libreria in centro dove passiamo spesso che accadono le cose raccontate, ma potrebbe tranquillamente essere Firenze, o Milano, o Torino, se è da quelle parti che abitate. E c’è una ragazza, che ci narra in prima persona del momento in cui viene presa in ostaggio da un gruppo di balordi qualsiasi, impegnati in una rapina in libreria. E c’è un altro ragazzo, che ci viene raccontato in terza persona mentre compie la sua impresa, con un gruppo di amici, ovvero quella stessa rapina in quella stessa libreria dove passiamo spesso. Lei, in sostanza, inciampa in quell’impresa, rimanendo vittima di un sequestro non voluto, inaspettato, come un colpo di pistola che inaspettatamente parte ed uccide qualcuno. (Certo, se rapini un negozio con una pistola in pugno il minimo che puoi aspettarti è che qualcuno si faccia male ma non ci si aspetta mai l’ovvio a favore di un rassicurante pensiero di essere speciali, tanto speciali che a noi andrà tutto bene; ma è facile dirlo se sei un lettore e non Glauco). Questo libro, quindi, ci narra un incontro tra due ragazzi, Anna e Glauco, che si dipana secondo la più classica delle situazioni asimmetriche, quella tra vittima e carnefice. La distanza tra i due viene sottolineata dal principio, tanto che i due personaggi vengono presentati con due stili narrativi differenti,come a volerli far apparire da subito semplicemente diversi, distonici, ma non c’è nulla di semplice in un incontro, ed il loro ci richiama fin da subito una coniunctio, in cui gli opposti si guardano ritrovando se stessi allo specchio. A nulla serve elencare le differenze che l’autrice non ci risparmia: lei sola, lui in gruppo; lei come io pensante, lui raccontato in terza persona; lei vittima ed impaurita, lui carnefice ed armato di pistola; lei risoluta e forte nei pensieri, lui in preda ad una brutta bestia che si porta dentro; lei… lui… dopo poco, superato lo shock di tutto questo differenziare e differenziarsi planiamo dolcemente sulle calme acque dell’identificazione proiettando noi stessi tra le pagine di questa storia, diventando Glauco, e poi Anna e lasciandoci prendere come solo una buon racconto sa fare. Non a caso l’autrice di questa riuscitissima opera prima è una psicoterapeuta ed è compito primario di ogni buon romanzo riuscire a far evadere il lettore da se stesso per trasformarlo in parole, carta e storia, e fare in modo che egli si ritrovi non più soltanto a leggere ma a vivere ciò che legge. E quando, infine, Anna riuscirà ad uscire da quella libreria liberandosi da sé noi ci sentiremo liberati, così come ci lasceremo prigionieri con Glauco che, rimasto dentro a fare i conti con un nuovo colpo di pistola, ci porterà a sentire che qualcosa dentro di noi comunque rimane, vittima, in pericolo, irrisolto, in un finale aperto che diventa solo nostro.Così come è solo nostro l’epilogo e la scelta di ciò che è importante.
“Eravamo bambini abbastanza” di Carola Susani
a cura di Ilaria Scarpiello
“Alex diceva che il primo ad andare via col Raptor era stato Leonid, rapito a Leopoli. Poi Tania in Bielorussia. Catardzina, presa nell’est della Polonia. Poi lui, mentre era in viaggio dall’Italia all’Ucraina. Ana in Romania. Il sesto è stato Dragan, rapito alla periferia di Belgrado. Ma Dragan è morto. Settimo è stato Filip che è sloveno. L’ultimo sono stato io.”
Non accettare mai caramelle dagli sconosciuti.
Quante volte mi sarà stato ripetuto questo monito da bambina? Migliaia.
In “Eravamo bambini abbastanza”, però, il Raptor non offre caramelle: lui i bambini se li prende e basta. Non li rapisce per venderli ai pedofili, ai satanisti o ai trafficanti di organi, bensì perché anche lui, il Raptor, vuole amare ed essere amato, vuole una famiglia, vuole essere felice. La penna di Carola Susani disegna con maestria un personaggio spaventoso, miserabile ed infinitamente triste.
Ciò che sgomenta è come rapitore e rapiti riescano velocemente ad organizzarsi in una comunità, un clan collaborativo, funzionale ed autosufficiente, al punto da indurre i bambini a dimenticare i propri familiari e a costringerli a pensare che la cosa peggiore che potrebbe accader loro sarebbe quella di ritornare a casa. Vagabondare per l’Europa al seguito del loro misterioso caregiver diventa un viaggio iniziatico, una tragica occasione di crescita, dove ad essere protagonista non è la perdita traumatica dell’innocenza, ma l’evidenza scioccante di un lato oscuro dell’infanzia, un istinto di sopravvivenza granitico che si nutre di affetto, qualsiasi forma esso assuma.
Carola Susani con il suo stile asciutto e disarmante, calandosi perfettamente nella voce narrante del bambino protagonista, accompagna il lettore dall’Europa dell’Est a Roma, dove l’avventura finisce. Ci fa camminare lungo deserti binari ferroviari, ci fa patire la fame e la sete, ci fa soffrire il freddo e la stanchezza delle gambe, ci fa fare la pipì addosso: ci fa tornare bambini abbastanza, nel malaugurato caso qualcuno di noi abbia dimenticato di esserlo stato.
“Le dee dentro la donna” di Jean S. Bolen
a cura di Ilaria Scarpiello
Immaginate una tavola rotonda cui, intorno, siano ordinatamente sedute Artemide, Atena, Estia, Era, Demetra, Persefone, Afrodite e tutti gli archetipi femminili che esse rappresentano mediate dalla presenza di un Io funzionale.
Spesso accade, però, che l’Io non riesca a condurre la riunione con profitto, che venga scavalcato, e il risultato può essere caotico, con litigi fra le dee, e, magari, con una più forte di tutte che riesce a prendere il sopravvento sulle altre.
Jean S. Bolen, autrice del libro Le dee dentro la donna, nonché terapeuta junghiana, ritiene sia effettivamente quello che accade nel mondo interno delle donne fin dalla notte dei tempi.
La sua idea è che ogni dea sopracitata rappresenti un particolare archetipo femminile che, se non integrato con gli altri, può seriamente minare la qualità di vita di una donna.
L’autrice incomincia con il suddividere le dee in tre gruppi. Le Dee Vergini (Artemide, Atena, Estia) rappresentano la qualità femminile dell’indipendenza e dell’autosufficienza e come archetipi esprimono il bisogno di indipendenza della donna, la sua capacità di concentrarsi consapevolmente su quanto è significativo per lei come persona autonoma. Le Dee Vulnerabili (Era, Demetra, Persefone) che rappresentano i ruoli tradizionali di moglie, madre e figlia, sono archetipi dell’orientamento al rapporto, quelle dee la cui identità e il cui benessere dipendono dalla presenza, nella loro vita, di un rapporto significativo ed esprimono il bisogno di appartenenza e di legame tipico delle donne. Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, in quanto dea alchemica si trova nella terza categoria che appartiene a lei sola: il suo archetipo spinge la donna a cercare nei rapporti l’intensità e la stabilità, a tenere in grande considerazione il processo creativo e a essere aperta al cambiamento.
Tra i fattori che orientano ogni donna verso un particolare tipo di dea troviamo sicuramente la predisposizione innata, l’ambiente familiare, la cultura. La donna, inoltre, attraversa molte fasi nella vita, ognuna delle quali può essere dominata da una o più dee, ma può anche accadere che uno stesso modello di dea governi fasi diverse. “Se ci si volta indietro a guardare la propria vita passata, spesso si riesce a vedere quali dee sono state più importanti e potenti di altre, e quando” sottolinea la Bolen.
Nella psiche della donna, così come accadeva sull’Olimpo, hanno luogo competizioni, conflitti ed alleanze fra le dee. Queste figure interne che rappresentano modelli archetipici potenti lottano per trovare espressione, proprio come le dee greche rivaleggiarono, un tempo, per il pomo d’oro, ovvero il premio assegnato dal giudizio di Paride.
Quando le dee collaborano e a turno trovano espressione nella donna, l’assegnazione del pomo d’oro dipende dalle circostanze e da ciò che lei sta facendo in quel momento.
Se la donna lascia che siano gli altri a decidere che cosa è importante per lei, vivrà secondo le aspettative altrui e si conformerà agli assunti sociali di ciò che deve fare, nella sua vita saranno gli altri a determinare quale dea dovrà essere onorata. Se, invece, decide per conto proprio a quale dea assegnare il pomo d’oro, basando la scelta sulla forza della dea presente in lei, allora qualsiasi cosa deciderà sarà per lei significativa e autentica.
In ogni donna è presente un’eroina potenziale, essendo la padrona della propria esistenza, in un viaggio che inizia con la nascita e che prosegue per tutta la vita. Lungo il cammino, senza dubbio, incontrerà sofferenza, solitudine, vulnerabilità, incertezza e, soprattutto, conoscerà il limite, ma potrà trovare significati, sviluppare il carattere, fare esperienza dell’amore e della grazia, apprendere la saggezza.
La donna è plasmata dalle scelte che fa, dalla capacità di credere e di amare, di lasciarsi insegnare dall’esperienza e di impegnarsi. E se all’insorgere delle difficoltà riesce a valutare cosa può fare, a decidere cosa farà e ad agire in modo coerente con i propri valori e sentimenti, si comporta come l’eroina protagonista del proprio mito personale. Assumersi la responsabilità di fare la scelta è fondamentale e non sempre facile: ciò che definisce l’eroina è il fatto che lei lo fa.
Tuffarsi fra le pagine di questo libro e scoprire le caratteristiche di ogni dea, nonché la presenza o meno di determinati archetipi in precisi momenti della nostra esistenza passata o presente, non solo ci può arricchire come donne nell’ottica di una sempre stimolante ricerca del proprio posto nel mondo, ma può diventare anche un valido supporto nel nostro cammino di terapeute alle prese con la potente, e mai scontata, psicologia femminile.
Recensione a cura di Ilaria Scarpiello
Di cosa parla questo libro?
È la domanda che mi viene rivolta dalla gente che mi vede china e concentrata sulla mole di 622 pagine di Libertà.
La mia risposta è subitanea.
Libertà è un romanzo che parla di quanto sia illusorio e consolatorio il concetto di libertà, nonché della non possibilità per la famiglia di esistere in quanto risorsa per l’individuo.
È un romanzo che fa riflettere su tutto quello che possiamo fare delle nostre libertà, in concreto, una volta che si sia combattuto tanto per conquistarle.
Su quanto la nostra libertà sia una concessione decisa da altri, su quanta solitudine questa presa di coscienza possa portare.
La famiglia Berglund, Walter e Patty, e i loro figli Joey e Jessica, rappresentano l’ostinazione, o meglio, il desiderio di vivere in un mondo all’interno del quale è possibile sentirsi ancora speciali, dimenticando però che niente disturba questa sensazione quanto la presenza di altri esseri umani che si sentono speciali.
È un romanzo sul matrimonio, sull’amicizia, sulla politica. Su quanto le relazioni al loro interno siano tormentate dal desiderio, dal risentimento, dall’invidia, dal conformismo e dalle aspettative tradite.
Scorrendo le pagine del libro ci ritroviamo fianco a fianco con i Berglund, ne assaporiamo le gioie e i trionfi, critichiamo le loro scelte sbagliate, ci stizziamo per i comportamenti inaccettabili, ci commuoviamo per le sconfitte.
Soprattutto ci può capitare di pensare a quanto i Berglund siano lontani anni luce da noi, quanto più coerenti, maturi, felici noi possiamo aspirare ad essere.
Quanto più liberi di loro.
Illusi, perché i Berglund siamo noi.
E le parti di noi incominciano a sanguinare lì, fra le pagine del libro.
E facciamo fatica a finirlo questo libro, poiché mentre le vicende dei Berglund vanno avanti in un crescendo mozzafiato, noi siamo lì che tamponiamo le nostre parti sanguinanti, e ce le carichiamo sulle spalle, e corriamo in salita, sudiamo e malediciamo ogni possibile entità superiore perché non vogliamo rimanere indietro.
Vogliamo essere lì con i Berglund.
Vogliamo che non ci sia tolta la possibilità che, una volta finito, questo rimanga solo un bellissimo libro da riporre ordinatamente su di uno scaffale.
Ah, allora non lo leggo.
Mi è capitato di sentirmi controbattere da chi mi ha posto la domanda iniziale.
Ho sorriso, anzi sorrido tutte le volte ripensando a quanto stiano tenacemente esercitando il loro indiscutibile e rispettabile diritto allaLibertà.
Il Sacre du Printemps racchiude e descrive il cammino di individuazione che ognuno è chiamato a tracciare e a percorrere. Esso è come un vento che avvolge e sostiene, ma nasce nell’attesa e attinge la sua forza nell’attimo che precede il primo soffio.
Il Vento chiede movimento per esistere: l’aria quieta e immota non può dirsi Vento. Tuttavia, se si abbandona ad un’attesa nutriente, desiderosa di mostrarsi e di vivere l’incontro, se anela all’altro e cerca le parti di cui si sente mancante, allora, pur stando ferma, cammina, anche immobile e persa, essa è Vento. E il Vento accoglie in sé tutto ciò che ci appartiene: sa carezzare come una brezza; è dolce come Zefiro quando porta lontano semi e pollini, spande profumi e vita; sa essere forte quando sferza terre e mari; diviene violento e distrugge quando è tempesta.
Così è la nostra anima quando vive un’attesa piena e fertile, quando varca il confine e cerca il limite, quando trova il cibo dentro di sé, si nutre di relazioni, di paure, d’amore e di voce, di rabbia, di luce e di notte, perché anch’essa ci vuol bene. Perché la notte, con le sue lune, le sue tenebre, la sua capsula di stelle, è la pancia in cui riposa il pane del giorno passato, ed è il grembo che custodisce il mattino, il lievito perenne della vita.
L’anima dei luoghi
Nell’ultimo numero della rivista di psioslogia analitica (n. 28 del 2009) L’anima dei luoghi, Barbara Massimilla approfondisce il tema dello spazio.
L’autrice, partendo dall’assunto che i luoghi, sia come spazio fisico, sia come spazio all’interno del Sè, incidano sull’identità individuale e colletiva, ripercorre come in un viaggio l’idea dello spazio nel cinema, nell’arte figurativa e nella letteratura, toccando, infine, i luoghi di cura del disagio mentale, sia privati che istituzionali.
Barbara Massimilla affronta il tema prendendo spunto dall’immagine di due palme che, a distanza di anni, è ancora impressa nella sua anima. Inizia, infatti, con queste parole “durante l’infanzia e lo scorrre dell’età, le palemsi sono trasformate, hanno assunto una forma intima quasi umana, quasi un riferimento irrinunciabile per il mio mondo interno… forse incarnavo il simbolo dell’esilio dalle colonie greco-albanesi della primissima infanzia alla città dei Fori, esprimevano la nostalgia per quel mondo colorato delle origini, divenendo metafora di un sostegno segreto, simile ad una coppia di antenati che ti segue ovunque con lo sguardo”.
La seconda parte del seminario è stata incentrata sulla narrazione di un caso clinico: “Lo spazio bianco della maternità”. Il caso descrive la storia di una paziente che nella sua “incapacità” di divenire madre rispecchia la difficoltà e l’assenza di un immaginario interiore. Il procedere attraverso la creazione di uno spazio mentale, costituirà poi lentamente il formarsi di uno spazio fisico adeguato ad accogliere il bambino: come possiamo, infatti, accogliere qualcuno dentro se il nostro stesso corpo è terra straniera?
La gatta – M.L. von Franz, ed. Magi
Recensione a cura di Carmen Viccaro
Ogni necessità di cambiamento nella vita individuale e collettiva è generalmente preceduta da un periodo di vuoto, depressione, mancanza di avvenimenti, come se fosse necessario un tempo per accumulare energia nell’inconscio, energia indispensabile proprio per favorire quel cambiamento … Per questo obiettivo maschile e femminile non possono che lavorare insieme. Nella fiaba in questione è il principio maschile che dà l’incipit al cambiamento, ma come e quando questo avrà luogo è regolato dal femminile che sembra avere in sé un compito equilibratore, in quanto più flessibile e dotato della capacità innata di com-prendere, con-tenere. Al femminile appartiene l’arte che induce all’incontro, che consente e crea le condizioni per un ponte fra le genti. Il femminile che sprona è un femminile non separato dalla sua Ombra; sarà proprio l’agire di quest’Ombra, la gatta appunto, che metterà ogni cosa al suo posto, favorendo l’affermazione del nuovo contro un passato che non vorrebbe mai lasciare spazio. La gatta è una favola rumena letta in chiave analitica da M.L. von Franz ed esce a dieci anni dalla morte dell’autrice. E’ un’analisi acuta e sensibile, affascinante come tutti i lavori della von Franz che possiamo ritenere una spinta ad andare sempre avanti, a non fermarsi mai nella ricerca di sé e nel confronto con il cambiamento e, a sostegno di questo, l’autrice riporta una frase di Jung “… se non si procede costantemente in avanti, il passato ci risucchia. E’ come un formidabile vento che ci aspira e ci trascina indietro. Se non si va avanti, si regredisce.” In questo enorme lavoro, accompagnati da un mondo di archetipi, maschile e femminile devono procedere insieme, altalenando ed integrando le proprie peculiarità.
Sindiwe Magona
Questo è il mio corpo Ed. Gorée Iesa (Si)
Recensione a cura di Carmen Viccaro
Beauty, una giovane donna sudafricana, contagiata dal marito, muore di aids. Pochi giorni prima di morire, lascia un compito alle sue amiche del cuore, con un filo di voce dirà loro “vivete!” Nell’animo delle quattro amiche rimaste prenderanno corpo mille emozioni, dolore, sconforto, rabbia, ribellione che scientemente si tradurranno in comportamenti oppositivi ad uno status quo che, in Sudafrica, paese con il più alto tasso mondiale di sieropositivi, pone le donne all’ultimo gradino della scala sociale. È un romanzo duro, toccante che ha il coraggio della denuncia: contro le istituzioni, inefficaci e superficiali nella lotta all’aids, che non favoriscono la diffusione dei farmaci antiretrovirali, la chiesa che demonizza la sessualità e la cultura che, con i suoi tabù, rende ancora più difficile la cura impedendo di parlare apertamente del problema. Proprio la cultura viene individuata come il nemico peggiore, perché consente e favorisce la supremazia maschile in virtù della quale gli uomini rifiutano l’uso del preservativo e ostentano comportamenti sessuali irresponsabili, promiscui, e perché, dopo anni di apartheid, non ha la minima capacità di critica nei confronti della politica dei neri. Le quattro donne decidono di “partire da sé”; nel loro piccolo, nel loro quotidiano cominciano a rivendicare il diritto al rispetto, alla vita, ad un sessualità sicura: pagheranno tutte, chi più chi meno, un prezzo alto. È un bel romanzo, un omaggio coraggioso a coloro che non aspettano che siano sempre gli altri a muoversi ed a fare qualcosa. Mi piace chiudere con le parole iniziali del romanzo: Dio sapeva che la donna africana avrebbe vissuto tempi duri, durissimi. Ecco perché le donò una pelle resistente come Madre Terra stessa. Le diede una pelle dura, senza tempo, affinché il dolore non le si leggesse in viso; affinché quel viso non diventasse una mappa del suo cuore straziato e squarciato.
La ragazza dalle nove parrucche
a cura di Rosa Spennato
Mi ha entusiasmato leggere “La ragazza dalle nove parrucche” di Sophie van der Stap (2006), un diario che percorre il tempo della sua malattia, un anno di vita, fino alla guarigione. Mi sono chiesta che cosa mi ha conquistato così tanto e
riflettendo su questo innamoramento ne ho colto, infine, il senso: è un duro e bellissimo romanzo di formazione. Il linguaggio lineare, crudo e concreto all’inizio, poi con lo scorrere e trascorrere delle pagine e del tempo, s’impenna e si ammorbidisce per diventare fluido ed acquistare spessore, corpo e sensibilità divenendo leggero e profondo.
Sophie è una studentessa ventunenne in Politologia di Amsterdam. Età di conquista e scoperta del proprio tempo, del proprio spazio. Una ragazza con tutta la vita davanti che si interrompe improvvisamente nel momento della dirompente diagnosi di cancro ai polmoni. Quindi, improvvisamente, è obbligata a confrontarsi con un evento traumatico che come tale porta disorganizzazione, paura, regressione, rabbia e spaesamento. Ma lei non nega la malattia anche se nulla è più come prima, il suo progetto infatti era altro ed era altrove. Il dolore all’inizio l’ha sopraffà e lei comincia a toccare, a provare, quell’angoscia di morte che ogni paziente di una malattia grave prova, non accetta la sua “pelata” come affettuosamente chiama la sua testa calva. Poi un po’ per volta ci prende per mano, ci trascina nel mondo della sua malattia, della sua cura e della sua vita. Ci guida nella sua famiglia, affiatata e sensibile, che solo un anno prima aveva affrontato, vincendolo, il tumore al seno della madre.
Ci coinvolge nel mondo dei suoi amici, che l’amano e che come lei all’inizio sono sconcertati e tristi. Ci porta nel mondo dell’amica del cuore, la cara Annabel, con cui ha condiviso tutto, dall’infanzia fino all’ultimo capodanno a New York e della sua prima sessione di prova della parrucca dove incontra Stella, la sua prima parrucca con cui inizia il diario/libro.
Entriamo con Sophie nel negozio di costumi teatrali perché continua a domandarsi “da dove tiri fuori le sue belle acconciature Samantha di Sex the City” e dove incontra le sue belle parrucche scoprendo di poter giocare con loro ed inventarsi una vita, anzi tante vite per poter attaversare il suo anno infernale.
Infatti entra con Stella, racchia e sfigata ed esce con Daisy, maliziosa e sognante e con Sue malandrina e selvaggia. A loro, nel tempo si aggiungeranno Pam, Uma, Platina Bebè, Blondie e Lydia e le avventure che vivrà attraverso di loro come quando racconta della sua serata danzante e ” del suo colorito abbronzato, grazie ad un flaconcino di abbronzante, mi dà la sicurezza che mi serve per mettere piede nel nuovo nightclub, mi sono messa il vestito più bello e i rossi capelli selvaggi di Sue sulla testa. Di ciglia mie non me n’è rimasta neppure una, ma tanto quelle finte sono più lunghe e belle…. scandaglio la pista e poso lo sguardo su una cravatta danzante…… la cravatta danzante se ne sta accucciata a fare le fusa con la testa sulla mia pancia, sono in taxi mezza addormentata….. il ragazzo accanto a me vede una giovane ragazza piena di vita con un’acconciatura trendy in testa. Più che di musica disco e All Stars non abbiamo parlato. Ma tu che cosa fai ? Un anno sabbatico. Oh, fico”……oppure quando racconta della sua breve vacanza in Lussemburgo con un suo boy friend: “di mattina esco dall’hotel come Pam, per rituffarmi nel nostro letto come Uma. La receptionist non ci capisce un tubo e guarda Rob poco convinta. Lui d’altra parte si diverte a stare al gioco”.
Sophie trasforma il dolore per la “sua pelata” nel gioco di creatrice d’identità ed è questo il modo in cui lei esplora i mondi dentro e fuori di sé. Gioca con “il suo drago”, si maschera e mascherandosi crea reti intorno a sé, mondi, e narrandoli dona loro una consistenza ed una presenza viva e sognante.
Andando alla ricerca di sé grazie alle sue parrucche espande la sua coscienza, affina la sua sensibilità, conosce la sua molteplicità, sfugge alle etichette cercando di essere se stessa in libertà. Da ragazzina trendy diventa una donna coraggiosa che può visualizzar la sua paura, disegnarla, affrontarla e narrarla.
Diventa punto di riferimento, per tanta gente ammalata di cancro, comincia a scrivere articoli, partecipa ad un programma televisivo, rendendo visibile un mondo sommerso che può appartenere, anche ad ognuno di noi.
Sophie tocca il limite ed impara a muoversi, ad amare e dare importanza alle cose essenziali. Gioca la sua partita con la morte con creatività ed immaginazione, gioca la morte e soprattutto si confronta con la vita.