Eravamo bambini abbastanza

Di Carola Susani.
Recensione a cura di Ilaria Scarpiello

“Alex diceva che il primo ad andare via col Raptor era stato Leonid, rapito a Leopoli. Poi Tania in Bielorussia. Catardzina, presa nell’est della Polonia. Poi lui, mentre era in viaggio dall’Italia all’Ucraina. Ana in Romania. Il sesto è stato Dragan, rapito alla periferia di Belgrado. Ma Dragan è morto. Settimo è stato Filip che è sloveno. L’ultimo sono stato io.”

Non accettare mai caramelle dagli sconosciuti.

Quante volte mi sarà stato ripetuto questo monito da bambina? Migliaia.

In “Eravamo bambini abbastanza”, però, il Raptor non offre caramelle: lui i bambini se li prende e basta. Non li rapisce per venderli ai pedofili, ai satanisti o ai trafficanti di organi, bensì perché anche lui, il Raptor, vuole amare ed essere amato, vuole una famiglia, vuole essere felice. La penna di Carola Susani disegna con maestria un personaggio spaventoso, miserabile ed infinitamente triste.

Ciò che sgomenta è come rapitore e rapiti riescano velocemente ad organizzarsi in una comunità, un clan collaborativo, funzionale ed autosufficiente, al punto da indurre i bambini a dimenticare i propri familiari e a costringerli a pensare che la cosa peggiore che potrebbe accader loro sarebbe quella di ritornare a casa. Vagabondare per l’Europa al seguito del loro misterioso caregiver diventa un viaggio iniziatico, una tragica occasione di crescita, dove ad essere protagonista non è la perdita traumatica dell’innocenza, ma l’evidenza scioccante di un lato oscuro dell’infanzia, un istinto di sopravvivenza granitico che si nutre di affetto, qualsiasi forma esso assuma.

Carola Susani con il suo stile asciutto e disarmante, calandosi perfettamente nella voce narrante del bambino protagonista, accompagna il lettore dall’Europa dell’Est a Roma, dove l’avventura finisce. Ci fa camminare lungo deserti binari ferroviari, ci fa patire la fame e la sete, ci fa soffrire il freddo e la stanchezza delle gambe, ci fa fare la pipì addosso: ci fa tornare bambini abbastanza, nel malaugurato caso qualcuno di noi abbia dimenticato di esserlo stato.

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